FIRENZE NELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA



VITA QUOTIDIANA DURANTE I MESI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
dal libro Pieraccini Monica FIRENZE E LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (1943-1944). Edizioni Medicea, Firenze, 2003, pp 357. 
 
 
   Nei libri di storia non si parla della vita quotidiana durante i mesi della Repubblica Sociale. Non se ne parla perchè, con una discutibile omissione, si passa dalla caduta di Mussolini alla fine della guerra, lasciando una zona grigia, poco analizzata e basata su pochi dati, che trattano esclusivamente dell’andamento del conflitto bellico. La sensazione risultante è quella che nei 600 giorni di Repubblica Sociale Italiana la popolazione non abbia vissuto. Quasi come se si fosse dedicata anima e corpo alla guerra civile, o quasi come se si fosse chiusa in casa in attesa del passaggio degli alleati. Niente di più sbagliato. Almeno se si pensa all’Italia del Centro-Nord, dove la vita andò avanti, ben poco si paralizzò, e le amministrazioni cittadine, finchè non passò il fronte, riuscirono a garantire tutti i servizi essenziali alla popolazione. Non solo, ma nonostante la guerra, nonostante il momento terribile e di "emergenza", gran parte degli italiani – almeno quelli che non erano arruolati o che non avevano scelto di latitare sui monti – ebbe la possibilità di riempire le giornate assistendo a manifestazioni sportive e culturali di vario genere. Scuole e università erano aperte, i cinema e i ristoranti erano numerosi e in piena attività, i trasporti funzionavano e gli uffici pubblici mettevano in condizione i cittadini di districarsi tra le mille pratiche burocratiche, i negozi vendevano merce e, soprattutto, per chi aveva soldi, sul mercato nero era possibile trovare di tutto per continuare a vivere in modo decoroso. Certo, la situazione andò progressivamente deteriorandosi nel corso dei mesi e con l’avvicinamento del fronte, ma in linea di massima si può notare come l’apparato amministrativo della neo-costituita Repubblica Sociale funzionò, anche in condizioni estreme. 
    Un altro mito da sfatare è che la popolazione, dopo l’8 settembre, abbia fatto la corsa ad arruolarsi nelle formazioni partigiane. Niente di più falso. Con la caduta di Mussolini, ma soprattutto con l’8 settembre, gli italiani furono sicuramente presi da un senso di angoscia, di paura e di smarrimento. Non si aveva idea di cosa avrebbero fatto i tedeschi, se si fossero fermati al nord, dove c’erano le principali industrie della penisola, o se fossero scesi giù, verso il Meridione. A proposito dei giorni dell’armistizio Arturo Loria, scrittore, collaboratore di "Solaria" e tra i fondatori della rivista "Il Mondo", nel suo "Diario di Bordo", affermava : "Occorre dominarsi, c’è da perdere la testa". E in effetti le voci si rincorrevano, si pensò anche al suicidio di Hitler, ma, l’ordine pubblico non fu messo in crisi, o comunque le reazioni furono più tiepide di quello che uno poteva immaginare. La tendenza della maggioranza della popolazione, da quel momento e, in modo accentuato, sino alla "liberazione" dell’Italia, fu quella di sparire o comunque di non compromettersi con nessuna delle parti in lotta. Schierarsi significava fare una scelta, e non molti, in questa fase di totale incertezza, erano disposti a sacrificarsi, tanto più che le difficoltà economiche imponevano ai più di restare ai loro posti per guadagnarsi lo stipendio necessario al mantenimento della famiglia. Per di più, schierarsi apertamente a fianco della R.S.I in un momento in cui la vittoria, se non impossibile, sembrava comunque lontanissima, era sicuramente un atto eroico, ed eroi sono infatti da considerare coloro che agirono in questo senso. Scappare sui monti e aderire al movimento antifascista era più facile, innanzitutto sotto l’aspetto psicologico, in quanto si era fiduciosi e ottimisti sugli obiettivi da raggiungere, ma comportava comunque anch’esso dei sacrifici, determinati dalla necessità di vivere nascosti sui monti, rischiando la pelle ogni giorno, in condizioni igieniche difficili e senza cibo. Così, la maggioranza degli italiani attese. Attese la fine della guerra, e con essa tutte quelle difficoltà materiali che rendevano più precaria la vita di tutti i giorni. 
   Questo diffuso atteggiamento è testimoniato da tanti diari, articoli di giornale e documenti dell’epoca. A Torino, ad esempio, appena dopo l’8 settembre, quando ancora le forze tedesche e fasciste non si erano dispiegate del tutto, il generale Trabucchi così scriveva ne "I vinti hanno sempre torto": "A Torino presi contatto con i carabinieri, la guardia di finanza, i metropolitani, l’Unpa (Unione nazionale protezione antiaerea ndr). Era facile trovare adesioni fino a che ci si accontentava di raccogliere informazioni e di ricevere modeste attestazioni di simpatia. Quando, per contro, si chiedevano posti e documenti di copertura, locali nei quali accantonare armi ed esplosivi, staffette per collegamento, personale per la lotta armata, le simpatie si facevano tiepide."
   E’ la stessa sensazione che emerge leggendo i vari rapporti che i federali inviavano a Salò, e anche nei quotidiani e nelle riviste dell’epoca l’indole tendenzialmente apatica degli italiani era sottolineata e criticata. Così sulla Nazione del 17 novembre 1943, in un articolo firmato "Acis" e intitolato "Attendisti zazzeruti" si legge: : "Il contegno di molti italiani è, infatti, patologico; questo estraniarsi dai lutti, dai tormenti, dai disastri della patria rappresenta una sorta di anestesia che è propria di certe forme mentali...Giovanotti coi capelli lunghi, le maniere effemminate, la sigaretta in bocca, il bicchiere dell’aperitivo sul tavolino, discutono animatamente: credereste che discutessero della guerra, della situazione italiana, dei gravi compiti che spettano alle nuove forze nate nel paese? Vi avvicinate e vi accorgete con stupore che stanno parlando di vestiti, scarpe, di borsa nera, di tabacchi, della maniera di eludere le disposizioni annonarie, qualche volta perfino di donne. Ma di guerra, ohibò! La guerra non esiste, non ha importanza." E ancora, sullo stesso quotidiano, a fine gennaio 1944: "Vediamo ai caffè ancora troppa gente che ozia e chiacchiera a vanvera per ammazzare il tempo (ironia delle parole!); vediamo in giro troppi elegantoni, troppi zazù ostentatamente originali, cappelli a larghe falde, guantoni, sciarpona di lana (!), giacca a martingala, pantaloni a quadrettoni e canino... tutto un insieme che sa di americanismo rientrato e pacchiano, eleganza chiassosa e senza scopo, molto rustica e molto pretenziosa, ma, probabilmente, molto costosa... ci sembra che questi signori manchino di contegno, che è la virtù dei raffinati...". 
   Anche "Italia e Civiltà", settimanale edito da Carlo Cya e diretto da Barna Occhini, più volte lancia strali, anche se spesso con sferzante ironia, contro questo atteggiamento degli italiani, poco consci del difficile momento. Eloquente a questo proposito un articolo di Enrico Sacchetti, pittore e arguto scrittore, che, osservando i fiorentini che facevano le code nei negozi per acquistare i grilli che si vendevano in occasione, appunto, della "Festa del Grillo", che cadeva nel giorno dell’Ascensione, così commentava: "...Mi dissi che i fiorentini si dimostravano veramente eroici e civilissimi perchè a costo di rimetterci la Pelle non rinunciavano alla Poesia... e mi sentivo tutto orgoglioso quando mi assalì un dubbio: e se invece questa fosse incapacità a partecipare al grande dramma della Patria? Se fosse indifferenza, apatia, "attendismo"?". 
   E’ evidente, insomma, che dopo aver esultato per l’intervento dell’Italia in guerra, la popolazione era ormai stanca, risentiva dell’aumentato costo della vita e non vedeva l’ora di tornare alla normalità, in tutto e per tutto. Quel che occorre ribadire, però, è che in effetti, specie nei primi mesi di Repubblica Sociale, tutti rimasero al loro posto a lavorare e ciò permise alle autorità di fornire ai cittadini quei servizi necessari alle attività quotidiane della città. 
   Firenze, in questo, fu un caso emblematico e sul capoluogo toscano andiamo adesso a soffermarci, permettendoci comunque di generalizzare e di dire che la situazione fiorentina è paragonabile a quella della maggioranza delle città italiane del nord e del centro (anche se, come avremo modo di sottolineare, Firenze fu più fortunata di altre, in quanto la presenza di campagne nel circondario permise alla popolazione di procurarsi il cibo anche nei momenti più difficili del passaggio del fronte).
   Sia il 25 luglio che l’8 settembre del ’43 la popolazione e le autorità fasciste, che pur detenevano armi e potere, non ebbero grandi reazioni. Il giorno della caduta di Mussolini in città si ebbero solo una cinquantina di feriti e qualche manifestazione di esultanza. Maggiore angoscia e senso di smarrimento caratterizzarono l’8 settembre e nella mattina del 12, quando i tedeschi entrarono in città occupandone i punti nevralgici, i fiorentini si chiusero in casa, ma, poche ore dopo, i negozi, che avevano abbassato le serrande, ripresero la loro attività.
   Nonostante il coprifuoco e gli allarmi aerei, la vita cittadina, almeno nei primi mesi di Repubblica Sociale, non fu interrotta così tante volte. Gli allarmi erano ancora rari (nell’agosto del 43 ne suonarono solo nove) e le stesse autorità credevano poco alla possibilità di un bombardamento su una città d’arte amata in tutto il mondo. Nonostante fossero stati costruiti numerosi rifugi, i fiorentini erano indisciplinati e spesso gli allarmi non li spingevano a nascondersi come avrebbero dovuto. Rimanevano per strada, incuriositi dai sorvoli degli aerei, e fu proprio questo a determinare il grande numero di vittime durante il primo bombardamento su Firenze. Il 25 settembre ’43 si contarono, infatti, 218 morti e 150 feriti. Tra loro, perse la vita anche il noto professor Kriegbaum, direttore dell’Istituto Germanico di Storia dell’Arte, che proprio qualche tempo prima, riferendosi al capoluogo toscano, si era retoricamente chiesto: "Chi potrebbe distruggere una tale bellezza?".
   Il bombardamento sconvolse i fiorentini, il cui stato d’animo non era sicuramente dei migliori, anche se non avevano la volontà di mettere in difficoltà le autorità. Ovviamente, l’umore della popolazione seguiva l’andamento delle operazioni militari, e soprattutto, la situazione economica e alimentare, che peggiorò a partire dal marzo ’44 (mese durante il quale ci furono 31 allarmi e 2 bombardamenti). Firenze, come abbiamo già accennato, fu comunque una città che sotto questo aspetto fu fortunata. Nelle campagne vicine, infatti, i fiorentini poterono trovare frutta, verdura, pollame anche nei momenti più difficili. Non solo, ma chi aveva soldi da spendere poteva comprare di tutto al mercato nero: dalle calze al burro (180 lire il chilo), dall’acqua allo zucchero, dai panini ripieni al prosciutto, che costavano 15 lire, alla carne, che nei mesi appena antecedenti il passaggio del fronte in città, si poteva acquistare a 160 lire il chilo. 
   In realtà, nei primi mesi di Repubblica Sociale anche sul mercato "ufficiale" la situazione era piuttosto buona. I raccolti abbondanti permettevano di distribuire quasi tutte le razioni previste. Più difficoltà si ebbero sin dall’inizio per prodotti come pesce, latte, olio (nel giugno 1944 un fiasco di due litri e mezzo arrivò a costare anche 1100 lire!), grassi in genere e carne. I dolci, che ancora venivano confezionati, avevano prezzi molto alti. 
   Per la popolazione, comunque, districarsi tra le numerosissime norme, che regolavano il tesseramento e che coinvolgevano produttori, rivenditori e consumatori, non era facile. Non tutti i negozi potevano vendere le razioni, che per altro venivano distribuite in determinati giorni. Ciò causava lunghe file davanti agli spacci autorizzati, tanto che spesso le donne, che più si dedicavano a questo tipo di attività, avevano difficoltà a tornare a casa prima dell’inizio del coprifuoco. La popolazione, che non poteva accontentarsi delle razioni "ufficiali", si ingegnava in tutti i modi possibili per ottenere di più. I produttori agricoli erano restii a consegnare tutto il quantitativo designato dalla Sepral (Sezione Provinciale dell’Alimentazione) agli ammassi e non erano pochi coloro che macinavano e macellavano clandestinamente. Tra i commercianti c’era chi vendeva la merce sottobanco a prezzi più alti di quelli consentiti e chi, in bar o trattorie, non si atteneva alle norme sulla somministrazione e finiva con il preparare cappuccini, anche se vietati, o confezionare dolci con zucchero e mandorle, anche se non era permesso dalla legge. Dal canto loro i consumatori preferivano sicuramente pagare di più ma assicurarsi un quantitativo di cibo maggiore, acquistando al mercato nero o cercando qualche scusa per farsi duplicare la carta annonaria dalle autorità competenti. 
   Nel corso dei mesi, i generi che venivano tolti dal mercato libero e poi razionati aumentarono. Nell’ottobre ’43 fu introdotto il razionamento del sale, che veniva distribuito in misura di 100 grammi per persona alla settimana (nell’aprile ’44 la razione fu ridotta di 1/3). Il mese successivo furono tesserati anche i tabacchi, per ovviare alle lunghe code che si creavano a causa di intere famiglie, compresi minorenni, che si mettevano in fila per acquistare anche 70 sigarette al giorno, per poi rivenderle sul mercato nero, facendo affari d’oro. La razione individuale fu fissata inizialmente a 40 sigarette a testa alla settimana. Da dicembre il razionamento dei tabacchi fu ulteriormente modificato e regolamentato da 11 articoli, secondo i quali a ciascun consumatore sarebbe stata rilasciata una tessera con nome e cognome del proprietario, numero della rivendita presso la quale recarsi, e numero della carta annonaria. La tessera era divisa in 52 cedole che l’esercente doveva staccare settimana per settimana all’atto della distribuzione della razione. La razione individuale settimanale sarebbe stata determinata ogni volta dall’ufficio compartimentale dei Monopoli di Stato. Nel maggio del 1944, infine, il tesseramento dei grassi fu esteso a tutti i pubblici esercizi, esclusi quelli di quarta categoria.
   Con il passare dei mesi, l’aumento dei prezzi e il peggioramento generale della situazione economica portò a un aumento delle infrazioni annonarie, tanto che le autorità cercarono di porvi rimedio aumentando i controlli. A questo scopo fu istituito il Nucleo di Polizia Economica, guidato dal capitano Ercole Cardillo, che cercò di reprimere i reati attinenti alla disciplina economica della produzione e distribuzione dei prodotti. E anche se sequestri e punizioni furono in effetti numerosi, era sicuramente impossibile riportare la situazione sotto controllo. I commercianti nascondevano stoffe e tessuti dentro le pareti dei loro negozi o nei cimiteri e, intanto, strani personaggi provenienti da chissà dove entravano in città cercando di fare affari, speculando sulla fame e sui bisogni dei fiorentini. E’ il caso ad esempio di tre cinesi, Ton Hutymg, Ching-Chang Chene e Jue Jean Koo, arrivati in città da Milano per vendere clandestinamente camicie da uomo e fazzoletti. Furono arrestati per aver tentato di corrompere gli agenti della squadra annonaria. 
   Nell’aprile ’44 la Sepral aumentò le razioni di pasta e di pane. La pasta passò da due a tre chili a testa il mese, il pane salì a 250 grammi, anche se era poco lievitato e quindi pesava di più. In luglio, a un mese dall’inizio della "battaglia di Firenze" le difficoltà dal punto di vista economico erano ormai insuperabili. La carne, insufficiente alla distribuzione, tornò sul mercato libero, con un prezzo che variava dalle 80 alle 150 lire il chilo. I prodotti più abbondanti erano frutta e verdura, mentre la razione di pane scese a 100 grammi, era distribuita solo al mattino e doveva bastare in media per sette persone della famiglia. Quando il pane mancava, veniva distribuito direttamente il grano.
   L’olio era diventato, come scriveva Bernard Berenson nel suo "Echi e riflessioni – Diario ’41-44" "raro come un liquore prezioso", anche se qualcuno giurava che in giro si potessero trovare ancora pasta e pane fatti in casa, verdure, pere, susine e fichi dolcissimi.
   La situazione economica influenzava senza dubbio l’umore della popolazione, tanto che proprio le difficoltà economiche furono la motivazione principale che portò agli scioperi del marzo 1944, unica occasione in cui l’ordine pubblico cittadino fu messo in crisi. I primi giorni di marzo, infatti, gli operai delle principali fabbriche cittadine (Pignone, Cipriani Baccani, Manifattura Tabacchi, Galileo) incrociarono le braccia, rendendo tangibile il malcontento che serpeggiava tra loro a causa dell’aumento del costo della vita, al quale non era corrisposto un aumento dei salari. Per gli operai, ma anche per tutti gli impiegati a reddito fisso, era difficilissimo vivere con i soli generi tesserati, e, allo stesso tempo, i loro bassi stipendi permettevano loro di ricorrere solo in misura modesta al mercato libero e alla borsa nera. Questa situazione induceva, così, i lavoratori a restare al loro posto, visto che anche un pur modesto stipendio era fondamentale per sopperire alle necessità quotidiane.
   L’aspetto economico e quello dell’approvvigionamento alimentare furono sicuramente due dei più importanti nella vita quotidiana della popolazione, che fecero il buono e il cattivo tempo negli umori e negli stati d’animo e che assorbirono gran parte delle giornate dei cittadini, in particolar modo delle donne, vere amministratrici della gestione domestico-familiare, dopo che i loro uomini si erano arruolati a fianco della R.S.I o avevano più vilmente deciso di vivere da latitanti nei boschi.
   La vita quotidiana dell’epoca era però caratterizzata anche da altri aspetti. Abbiamo detto che in gran parte delle città italiane del nord i vari servizi pubblici funzionavano, i giovani andavano a scuola e all’università, e si poteva anche dedicare il poco tempo libero uscendo a cena nella migliori trattorie della città o assistendo a gare sportive, o a mostre d’arte, o ancora gustandosi i film al cinema o le opere a teatro. 
   Se torniamo infatti a parlare del capoluogo toscano, è evidente che nel periodo che va dalla costituzione della Repubblica Sociale (settembre 1943) al momento del passaggio del fronte in città (agosto 1944), solo i bombardamenti degli anglo-americani del 25 settembre, del 18 gennaio, dell’8 febbraio, dell’11 e del 23 marzo, del 1° e 2 maggio, gli allarmi aerei e poche, isolate azioni dei Gap, interruppero le varie attività cittadine. 
   Gli uffici pubblici erano di norma aperti mattina e pomeriggio, in tutta la città c’erano 30 cinema (dove si proiettarono sino alla fine di luglio del 1944 film come "La Gorgona" di Sem Benelli, "Ossessione" di Luchino Visconti, "Circolo equestre Zabum" con Alida Valli, Aldo Fabrizi e Carlo Ninchi, "Resurrezione" con Doris Duranti), senza contare i vari teatri (Comunale, Pergola, Verdi, Nazionale), dove opere, commedie e riviste furono allestite "sino all’ultimo". 
   Come ogni anno, anche nel ’44, in piena guerra civile, fu organizzato il Maggio Musicale, giunto alla nona edizione, che fu inaugurato l’8 aprile con un programma che prevedeva, tra l’altro, l’esecuzione di opere famose e di sicuro successo, come la "Lucia di Lammermoor", il "Flauto Magico", il "Falstaff", "Un ballo in maschera" e la "Agnese Bernauer" di Hebbel (quest’ultima ebbe protagonisti del calibro di Vittorio Gassmann, Ernesto Calindri, Memo Benassi e Ernesto Sabbatini). Artisti quali Antonio Abussi, Gino Bechi, Fedora Barbieri, Onelia Fineschi, Gustavo Gallo, Tito Schipa e Andrea Morosini si alternarono sul palco del Comunale sino al bombardamento di maggio, che determinò la chiusura del famoso teatro fiorentino, a causa della distruzione dell’organo, delle attrezzature del palcoscenico e di molte delle partiture delle opere e dei concerti. Le autorità, però, non si dettero per vinte neanche in quell’occasione e il "Così fan tutte" programmato da tempo per il 2 del mese, si tenne ugualmente all’interno del teatro della Pergola, sotto la direzione di Vittorio Gui,. 
   Anche il mondo della pittura dimostrava vitalità. Nelle numerose gallerie cittadine si esponevano i quadri di artisti dell’800, come Fattorini, Signorini, Silvestro Lega, Gordigiani, e di contemporanei, quali Pietro Annigoni, Ottone Rosai, De Chirico, Primo Conti, Lorenzo Viani, Ardengo Soffici, Alberto Savinio, Carlo Carrà, Umberto Boccioni, scultore e teorico della compenetrazione dei piani, con dei nomi, quindi, da far invidia alla Firenze di oggi, che si trova in una situazione di pace ormai da più di mezzo secolo. 
   Nel giugno ’44, mentre le autorità fasciste si stavano preparando ad abbandonare la città, fu organizzata a Palazzo Strozzi la XIV Mostra interprovinciale organizzata dal Sindacato fascista di Belle Arti della Toscana. Nello stesso mese iniziarono le audizioni per l’ammissione al Centro di avviamento lirico del Comunale e già si pensava all’inaugurazione della stagione sinfonica estiva nel cortile di Palazzo Pitti, quasi come se la cruenta guerra civile facesse da sfondo a una vita cittadina che doveva andare avanti, nonostante tutto, e anche in quella situazione di emergenza. 
   Dal punto di vista culturale, la città, dopo essere stata crocevia di intellettuali, artisti e scrittori, che avevano portato nuove idee e ideali, non solo poteva permettersi di vivere di rendita, ma, con i limiti comunque dettati dalla particolare ed "eccezionale" situazione, continuò ad essere viva anche in questo ambito. I vari istituti culturali funzionavano. C’erano l’ Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, l’Accademia fiorentina di Scienze Morali "La Colombaria", il Gabinetto Vieusseux, prestigiose biblioteche come la Riccardiana, la Nazionale e la Marucelliana, l’Istituto nazionale di Cultura Fascista e l’Istituto Germanico di Storia dell’Arte, diretto dal professore Kriegbaum (dopo la sua morte, avvenuta nel corso del primo bombardamento alleato su Firenze del 25 settembre ’43, gli successe Ludwig Heinrich Heydenreich). Nel novembre ’43 si trasferì a Firenze presso Palazzo Serristori la prestigiosa Accademia d’Italia, diretta da Gentile e poi da Giotto Dainelli, in dicembre fu riorganizzata l’Accademia della Crusca e nello stesso mese fu inaugurata la nuova sede dell’Associazione italo-germanica a Palazzo Antinori. Dal 29 marzo al 19 maggio ’44 fu organizzato dal circolo "Lyceum", sotto il patrocinio del Comune e con l’apporvazione dal cardinale Elia Dalla Costa, un ciclo di conferenze sui Santi italiani, al quale parteciparono, oltre alla presidentessa Jolanda Blasi, Guido Manacorda, Mario Casella, Adolfo Oxilia, Paolo Lamanna e Luigi Maria Personè.
   Anche se la grande epoca delle riviste fiorentine era ormai tramontata, durante i mesi della Repubblica Sociale Italiana uscirono quotidiani e periodici di rilievo. 
   La Nazione e il Nuovo Giornale, i quotidiani di informazione, furono pubblicati sino alla fine di luglio, mentre nel primo mese del ’44 iniziò le sue pubblicazioni il già citato "Italia e Civiltà", settimanale diretto da Barna Occhini, edito da Carlo Cya, e al quale collaborarono tra gli altri Giovanni Gentile, Ardengo Soffici, Primo Conti, Ridolfo Mazzucconi, Giovanni Spadolini, Enrico Sacchetti. La rivista, il cui ultimo numero uscì il 17 giugno, ebbe un tono pacato, ma non risparmiò critiche a certi atteggiamenti, sia che fossero propri delle autorità fasciste, sia della popolazione. 
   Più acceso e aggressivo il tono di "Repubblica", settimanale stampato in una tipografia di via della Pergola, che annoverava tra i collaboratori Chiara Corsini, Mario Vannini, Franco D’Agostino, Gioacchino Albano, Melchiorre Melchiorri. L’ultimo numero uscì il 22 luglio ’44.
   Nel’44, precisamente da febbraio a maggio, riprese le pubblicazioni anche la "Nuova Antologia", diretta sino alla sua morte da Giovanni Gentile, e poi da Ardengo Soffici. Gli articoli erano puramente (o quasi) accademici e toccavano quindi solo da lontano gli argomenti di attualità; i collaboratori erano professori e studiosi di altissimo livello, come Eugenio Garin, Giotto Dainelli, Niccolò Tommaseo e Giovanni Spadolini. 
   In generale, quindi, nonostante la situazione particolare, la città ebbe il suo fiorire letterario e artistico, anche se spesso le autorità fasciste lamentarono anche agli intellettuali la tendenza a fuggire dalla realtà per rifugiarsi in un mondo tutto loro. Enrico Sacchetti, ad esempio, su "Italia e Civiltà" scrisse un articolo piuttosto forte nel quale accusava gli stessi intellettuali dell’assassinio del grande filosofo Giovanni Gentile. Volenti o nolenti, complici del delitto di Gentile erano tutti quei professori che si davano per malati, i giornalisti alla macchia, i letterati, i pittori che continuavano a dipingere nature morte, i poeti e pensatori che non parlavano, che stavano nascosti o che pure scrivevano ma limitandosi "a cercar farfalle sotto l’arco di Tito". 
   In effetti, anche tra gli intellettuali schierati, serpeggiava sicuramente un senso di smarrimento e di angoscia. Primo Conti, nel suo "La gola del merlo" sottolinea la sensazione di imminente tragedia, che provava in una "stagione piena di incubi e sospetti". Allo stesso modo Ardengo Soffici spiegò con queste parole il motivo che lo portò a fare una scelta difficile, restando a fianco della Repubblica Sociale Italiana: "Vedi, la donna che c’innamorò quando era adolescente, ora è vecchia, brutta e ammalata. Scappare da lei sarebbe un’ignobile viltà: bisogna stare vicini al suo letto e sopportarla, anche maleodorante". Questione d’onore, quindi, che fecero propria tutti coloro che, pur essendo consapevoli dell’ormai imminente tragedia, pur comprendendo che Mussolini aveva ragione quando definiva se stesso "uomo per ¾ defunto", restarono al fianco di un ideale. Barna Occhini, genero di Papini e direttore di "Italia e Civiltà", dette la colpa al Duce di questa triste situazione. In una lettera indirizzata allo stesso, infatti, scrisse: "...avete lasciato che il mercato nero diventasse una piovra gigantesca; avete lasciato che restassero al vostro fianco, come intimi collaboratori, uomini che il Paese disprezzava e odiava... ora il primo responsabile di quanto è avvenuto, tradimento compreso, siete Voi, perchè in regime di dittatura è il dittatore responsabile di tutto, e come a lui risale ogni merito, così su di lui ricade ogni demerito..."
   Ma se il senso di smarrimento era comunque comprensibile, nei fatti, allo stato pratico, la popolazione continuava la sua vita. Il 15 novembre a Firenze iniziarono le scuole elementari, medie inferiori e superiori. Le lezioni si svolgevano generalmente dalle 8.30 alle 11.30, anche se alcune scuole adottarono il turno pomeridiano, con inizio alle 14.30. Sebbene interrotte sempre più spesso dagli allarmi, le lezioni si tennero regolarmente e regolarmente gli studenti andarono in vacanza dal 22 dicembre all’8 gennaio. 
   Dopo i bombardamenti dell’11 e 23 marzo, la situazione subì un peggioramento, in quanto i numerosi sinistrati, che avevano perso la casa sotto le bombe e che non conoscevano nessuno che li potesse ospitare, furono sistemati dal Comune proprio nelle scuole. Così, con i locali pieni, le lezioni non potevano essere tenute e tra il 15 e il 22 aprile chiusero tutte le scuole, anche se a maggio furono comunque fissati gli esami. 
   Anche l’Università funzionò per un certo periodo di tempo. Sino al 31 dicembre ’43 fu possibile iscriversi, mentre le lezioni cominciarono il 17 gennaio. Rispetto alle scuole, nelle facoltà si respirò un’aria più turbolenta, soprattutto perchè molti furono gli studenti progressivamente richiamati alla leva. In più, un numero più consistente di professori seguì l’atteggiamento attendista e assenteista (ma tutti o quasi si ripresentavano per prendere lo stipendio alla fine del mese) che colpì anche la magistratura. Emblematico il caso di Rodolfo De Mattei, professore di storia delle dottrine politiche alla facoltà di Scienze Politiche, che, dopo essersi presentato a lezione solo un paio di volte, sparì dalla circolazione dopo aver affermato: "Mi rivedrete insieme agli inglesi".
   La sostanziale tranquillità che caratterizzò la vita quotidiana durante i mesi della Repubblica Sociale Italiana fu confermata anche da un dato sorprendente, ovvero il numero degli ebrei fiorentini deportati. In effetti, la comunità ebraica del capoluogo toscano era numerosa, contava 2500 persone, ma solo 248 furono portate via e di esse 235 non fecero più ritorno a casa. Una percentuale pari a poco meno del 10%, che non è poi granchè se si pensa ai meticolosi rastrellamenti operati allora dai tedeschi. D’altronde le autorità fasciste, per mezzo dell’Ufficio Affari Ebraici, istituito alla fine del ’43, si occuparono esclusivamente delle requisizioni dei beni della comunità ebraica e in effetti il suddetto Ufficio, guidato da Giovanni Martelloni, ebbe un’entrata complessiva di 865.845 lire.
   L’ultimo aspetto che andremo ad analizzare è quello dell’efficienza della pubblica amministrazione, che, nonostante i costi esorbitanti che dovette sopportare, elargì ai cittadini i principali servizi.
   Giotto Dainelli, che accettò solo nel febbraio ’44, dopo varie esitazioni, la carica di podestà, portò avanti con grande efficienza il suo programma, da lui stesso illustrato ne "Le attività da me svolte in Firenze nella primavera 1944" (Roma, 1948) e che consisteva nel predisporre e prevedere d’urgenza quanto fosse di volta in volta necessario per le vicende della guerra combattuta, in particolare nel caso di bombardamenti; nel prevedere l’eventualità di un’occupazione anglo-americana e le impellenti necessità che sarebbero di conseguenza derivate dal cambio di occupanti stranieri in guerra tra di loro; nello studiare i grandi problemi cittadini, in modo che tutto fosse pronto per il dopoguerra. Dainelli fece così il possibile per far proseguire gli studi sul piano regolatore, sul sistema fognario cittadino e su quello idrico, anche e soprattutto in previsione della fine del conflitto, si prodigò per la riattivazione dei pozzi cittadini, in un momento in cui l’acqua era assai rara, predispose in città quattro punti fissi di soccorso ai quali i fiorentini potevano ricorrere in caso di bombardamenti e si adoperò affinchè lo sgombero delle macerie e gli interventi successivi alle incursioni fossero immediati e efficienti. Non solo, ma il podestà ebbe un ruolo importante nel far riconoscere l’appartenenza al Comune di Firenze delle ricchezze artistiche dei musei cittadini, nell’ambito dello spettacolo fece in modo che fosse organizzato nel migliore dei modi il Maggio Musicale fiorentino e, grazie a lui, in città furono allestite numerose mense comunali. In vista del passaggio del fronte e quindi dei giorni dell’emergenza, fece predisporre dal direttore dell’Ufficio di Igiene un elenco delle possibili malattie epidemiche che avrebbero potuto diffondersi in città e fece acquistare i farmaci necessari. Non solo, ma fu promotore di un importante progetto, poi fallito in quanto le banche non dettero la loro disponibilità, che avrebbe dovuto dotare il capoluogo toscano di una riserva di quasi 24.000 quintali di carbone vegetale, da utilizzare nel caso, piuttosto probabile, in cui il gas non fosse stato più erogato.
   Anche gli istituti di beneficenza - 38 erano quelli che si trovavano in città – continuarono a funzionare e un’opera importante fu quella svolta dall’Epaf (Ente provinciale di Assistenza fascista), che accentrava le varie attività assistenziali che nel ventennio erano state curate dalla Federazione fascista, che si occupava dei combattenti e delle loro famiglie, dalla Prefettura, punto di riferimento per sfollati e sinistrati, e dagli Enti Comunali di Assistenza, che cercavano di risolvere i problemi dei rimpatriati e delle famiglie bisognose. Nel solo mese di dicembre del ’44 l’Epaf erogò 12 milioni e mezzo di lire e nell’aprile ’44 20 milioni, più un milione di sussidi straordinari di primo intervento erogati per i due bombardamenti del primo e 2 maggio.
   Finchè il fronte non passò da Firenze, i principali servizi pubblici, quindi, funzionarono: treni, corriere, tram (in città c’erano più di 30 linee), taxi (che partivano da piazza Beccaria, piazza Donatello, piazza Cavour, piazza Santa Trinita, e così via) erano a disposizione dei cittadini sino all’ora del coprifuoco. Allo stesso modo, con le ovvie limitazioni determinate dalla difficile situazione, gas, luce, acqua vennero erogati sino all’ultimo. Quando il carburante iniziò a scarseggiare i servizi delle corriere che andavano fuori Firenze furono ridotte, così come aumentò il costo dell’energia elettrica. I bombardamenti sulla città causarono inoltre sospensioni, seppur temporanee, dell’erogazione di gas (che, ad esempio, dopo l’incursione dell’11 marzo fu sospesa per cinque giorni e il 23 dello stesso mese, a causa dei danni provocati dagli ordigni da 500 libbre scaricati dagli aerei anglo-americani fu ulteriormente ridotta), acqua e luce, oltre che a interruzioni delle linee tranviarie (in particolare il 25 settembre ’43, quando rimasero uccisi sotto le bombe 14 tranvieri). 
   A partire dal ’44, e con sempre maggiore intensità, si fecero sentire anche gli atti di sabotaggio e le azioni di disturbo da parte delle bande di partigiani, che andavano a colpire i tratti ferroviari e le linee telefoniche "volanti", che erano utilizzate dai tedeschi per mettere in comunicazione tra loro i diversi comandi. Dall’inizio del ’44 si verificò una diminuzione nella circolazione di auto private, a causa della mancanza di carburante e alla conseguente introduzione di divieti e limitazioni. Il 6 marzo ’44 l’esplosione di due bombe provocò danni agli scambi della linea elettrica tranviaria in via Baldini, ma in meno di tre ore il servizio fu ripristinato. Da segnalare l’aumento progressivo dei biglietti dei tram, che comunque rimasero in funzione sino a luglio, quando furono usati in particolar modo per il trasferimento di merci e immondizie. Il 10 giugno fu sospesa del tutto l’erogazione del gas e a fine mese si verificò una forte carenza di acqua, tanto che le condizioni igieniche peggiorarono in modo consistente. Il 23 luglio smisero di funzionare i telefoni, ma, ad ogni modo, se si escludono i giorni dell’emergenza vera e propria, il personale ferroviario, i vigili, i postelegrafonici, gli agenti di pubblica sicurezza e gli addetti alle organizzazioni di soccorso rimasero diligentemente al loro posto per tutto il periodo della Repubblica Sociale.
   Concludendo, quindi, e sintetizzando ciò che abbiamo già ampiamente sottolineato, anche durante il periodo della R.S.I la città di Firenze, e più in generale le città del centro-nord, restarono "vive", nonostante tutto. Non solo, ma i cittadini dimostrarono di non sentirsi completamente coinvolti da tutto quello che accadeva loro intorno. L’attenzione era rivolta essenzialmente ai piccoli (anche se importanti) problemi quotidiani. I fiorentini, in particolar modo, dimostravano di estraniarsi, di essere distratti e indisciplinati, persino in fatto di circolazione stradale. Ecco cosa si legge sulla Nazione del 1° dicembre ’43: "Firenze è stata sempre la città più refrattaria a tutte le discipline e in particolar modo a quella di cui parliamo... I visitatori provenienti da altre città si meravigliavano che i buoni fiorentini dessero prova di una così totale noncuranza per i regolamenti, attraversando le strade quando loro faceva comodo, guardandosi bene dal seguire una mano, nel camminare sui marciapiedi, affollandosi sui crocevia in amena conversazione... Se le rinnovate disposizioni hanno dato una parvenza di regole alla circolazione, non hanno infatti, e non lo potevano, cambiato il carattere e le abitudini dei cittadini, quali, da epoca immemorabile, hanno amato fermarsi a chiacchierare, prima sui marmi di Santa Reparata e poi sui crocicchi delle strade... Lo stazionamento inoperante in mezzo alle strade, l’ozio contemplativo del pedone che sfoggia il suo spirito con le ragazze che passano, è roba d’altri tempi, quando la placidità un pò sonnolenta della vita permetteva questo e altro." Per ovviare a questi inconvenienti, fu organizzato addirittura un ciclo di conferenze a cui dovevano obbligatoriamente presenziare coloro – pedoni, automobilisti e motociclisti – che avevano commesso infrazioni al codice della strada. Le lezioni erano tenute dal comandante dei vigili urbani Aldighiero Batini presso l’Archivio Centrale di Stato in via dei Castellani e, accompagnate da proiezioni, iniziavano alle 7 di mattina di ogni domenica. Chi non si presentava in orario sarebbe stato multato; chi non si presentava affatto sarebbe stato arrestato.
   Emblematico dello stato d’animo che si respirava tra la popolazione al momento del passaggio del fronte è anche il simpatico aneddoto riportato da Curzio Malaparte nel suo "Maledetti toscani", dove racconta che una mattina dell’agosto del 1944, quando gli alleati erano già entrati in città, un commerciante o più probabilmente un contadino, con il suo carretto a mano carico di fiaschi di vino, si trovò ad attraversare via Calzaioli. Dietro di lui, un colonna corazzata inglese, che chiedeva di passare. Al carrista che ordinò di spostarsi, l’uomo andò in escandescenze e gli urlò contro frasi del tipo: "Ho furia anch’io! O che prepotenze son queste? Non s’è mai finito di vederne di nuove! ‘E vanno via quelli e arrivano quest’altri! Io non mi sposto, io vo’ per la mi’ strada! E se t’hai furia, passa da un’altra parte!". O ancora: "o che vi credete d’essere a casa vostra? C’è tanto posto nel mondo per andare a fare la guerra, proprio qui vu’ avete a venire?..". Insomma, i fiorentini erano ormai stanchi della guerra e di tutti coloro che occupavano la città. Volevano riappropriarsi della loro amata città e tornare a una situazione di normalità, in tutto e per tutto. E in questo erano vicini a gran parte della popolazione italiana, che in un momento così difficile e triste, scelse la via più facile, quella attendista, che non avrebbe aggiunto problemi alle già numerose avversità quotidiane.

DOMUS