FIRENZE NELLA REPUBBLICA SOCIALE
ITALIANA
VITA QUOTIDIANA DURANTE I MESI DELLA
REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
dal libro Pieraccini Monica FIRENZE E LA REPUBBLICA
SOCIALE ITALIANA (1943-1944). Edizioni Medicea, Firenze, 2003, pp 357.
Nei libri di storia non si parla della vita quotidiana
durante i mesi della Repubblica Sociale. Non se ne parla perchè,
con una discutibile omissione, si passa dalla caduta di Mussolini alla
fine della guerra, lasciando una zona grigia, poco analizzata e basata
su pochi dati, che trattano esclusivamente dell’andamento del conflitto
bellico. La sensazione risultante è quella che nei 600 giorni di
Repubblica Sociale Italiana la popolazione non abbia vissuto. Quasi come
se si fosse dedicata anima e corpo alla guerra civile, o quasi come se
si fosse chiusa in casa in attesa del passaggio degli alleati. Niente di
più sbagliato. Almeno se si pensa all’Italia del Centro-Nord, dove
la vita andò avanti, ben poco si paralizzò, e le amministrazioni
cittadine, finchè non passò il fronte, riuscirono a garantire
tutti i servizi essenziali alla popolazione. Non solo, ma nonostante la
guerra, nonostante il momento terribile e di "emergenza", gran
parte degli italiani – almeno quelli che non erano arruolati o che non
avevano scelto di latitare sui monti – ebbe la possibilità di riempire
le giornate assistendo a manifestazioni sportive e culturali di vario genere.
Scuole e università erano aperte, i cinema e i ristoranti erano
numerosi e in piena attività, i trasporti funzionavano e gli uffici
pubblici mettevano in condizione i cittadini di districarsi tra le mille
pratiche burocratiche, i negozi vendevano merce e, soprattutto, per chi
aveva soldi, sul mercato nero era possibile trovare di tutto per continuare
a vivere in modo decoroso. Certo, la situazione andò progressivamente
deteriorandosi nel corso dei mesi e con l’avvicinamento del fronte, ma
in linea di massima si può notare come l’apparato amministrativo
della neo-costituita Repubblica Sociale funzionò, anche in condizioni
estreme.
Un altro mito da sfatare è che la popolazione,
dopo l’8 settembre, abbia fatto la corsa ad arruolarsi nelle formazioni
partigiane. Niente di più falso. Con la caduta di Mussolini, ma
soprattutto con l’8 settembre, gli italiani furono sicuramente presi da
un senso di angoscia, di paura e di smarrimento. Non si aveva idea di cosa
avrebbero fatto i tedeschi, se si fossero fermati al nord, dove c’erano
le principali industrie della penisola, o se fossero scesi giù,
verso il Meridione. A proposito dei giorni dell’armistizio Arturo Loria,
scrittore, collaboratore di "Solaria" e tra i fondatori della
rivista "Il Mondo", nel suo "Diario di Bordo", affermava
: "Occorre dominarsi, c’è da perdere la testa". E in effetti
le voci si rincorrevano, si pensò anche al suicidio di Hitler, ma,
l’ordine pubblico non fu messo in crisi, o comunque le reazioni furono
più tiepide di quello che uno poteva immaginare. La tendenza della
maggioranza della popolazione, da quel momento e, in modo accentuato, sino
alla "liberazione" dell’Italia, fu quella di sparire o comunque
di non compromettersi con nessuna delle parti in lotta. Schierarsi significava
fare una scelta, e non molti, in questa fase di totale incertezza, erano
disposti a sacrificarsi, tanto più che le difficoltà economiche
imponevano ai più di restare ai loro posti per guadagnarsi lo stipendio
necessario al mantenimento della famiglia. Per di più, schierarsi
apertamente a fianco della R.S.I in un momento in cui la vittoria, se non
impossibile, sembrava comunque lontanissima, era sicuramente un atto eroico,
ed eroi sono infatti da considerare coloro che agirono in questo senso.
Scappare sui monti e aderire al movimento antifascista era più facile,
innanzitutto sotto l’aspetto psicologico, in quanto si era fiduciosi e
ottimisti sugli obiettivi da raggiungere, ma comportava comunque anch’esso
dei sacrifici, determinati dalla necessità di vivere nascosti sui
monti, rischiando la pelle ogni giorno, in condizioni igieniche difficili
e senza cibo. Così, la maggioranza degli italiani attese. Attese
la fine della guerra, e con essa tutte quelle difficoltà materiali
che rendevano più precaria la vita di tutti i giorni.
Questo diffuso atteggiamento è testimoniato
da tanti diari, articoli di giornale e documenti dell’epoca. A Torino,
ad esempio, appena dopo l’8 settembre, quando ancora le forze tedesche
e fasciste non si erano dispiegate del tutto, il generale Trabucchi così
scriveva ne "I vinti hanno sempre torto": "A Torino presi
contatto con i carabinieri, la guardia di finanza, i metropolitani, l’Unpa
(Unione nazionale protezione antiaerea ndr). Era facile trovare adesioni
fino a che ci si accontentava di raccogliere informazioni e di ricevere
modeste attestazioni di simpatia. Quando, per contro, si chiedevano posti
e documenti di copertura, locali nei quali accantonare armi ed esplosivi,
staffette per collegamento, personale per la lotta armata, le simpatie
si facevano tiepide."
E’ la stessa sensazione che emerge leggendo i vari
rapporti che i federali inviavano a Salò, e anche nei quotidiani
e nelle riviste dell’epoca l’indole tendenzialmente apatica degli italiani
era sottolineata e criticata. Così sulla Nazione del 17 novembre
1943, in un articolo firmato "Acis" e intitolato "Attendisti
zazzeruti" si legge: : "Il contegno di molti italiani è,
infatti, patologico; questo estraniarsi dai lutti, dai tormenti, dai disastri
della patria rappresenta una sorta di anestesia che è propria di
certe forme mentali...Giovanotti coi capelli lunghi, le maniere effemminate,
la sigaretta in bocca, il bicchiere dell’aperitivo sul tavolino, discutono
animatamente: credereste che discutessero della guerra, della situazione
italiana, dei gravi compiti che spettano alle nuove forze nate nel paese?
Vi avvicinate e vi accorgete con stupore che stanno parlando di vestiti,
scarpe, di borsa nera, di tabacchi, della maniera di eludere le disposizioni
annonarie, qualche volta perfino di donne. Ma di guerra, ohibò!
La guerra non esiste, non ha importanza." E ancora, sullo stesso quotidiano,
a fine gennaio 1944: "Vediamo ai caffè ancora troppa gente
che ozia e chiacchiera a vanvera per ammazzare il tempo (ironia delle parole!);
vediamo in giro troppi elegantoni, troppi zazù ostentatamente originali,
cappelli a larghe falde, guantoni, sciarpona di lana (!), giacca a martingala,
pantaloni a quadrettoni e canino... tutto un insieme che sa di americanismo
rientrato e pacchiano, eleganza chiassosa e senza scopo, molto rustica
e molto pretenziosa, ma, probabilmente, molto costosa... ci sembra che
questi signori manchino di contegno, che è la virtù dei raffinati...".
Anche "Italia e Civiltà", settimanale
edito da Carlo Cya e diretto da Barna Occhini, più volte lancia
strali, anche se spesso con sferzante ironia, contro questo atteggiamento
degli italiani, poco consci del difficile momento. Eloquente a questo proposito
un articolo di Enrico Sacchetti, pittore e arguto scrittore, che, osservando
i fiorentini che facevano le code nei negozi per acquistare i grilli che
si vendevano in occasione, appunto, della "Festa del Grillo",
che cadeva nel giorno dell’Ascensione, così commentava: "...Mi
dissi che i fiorentini si dimostravano veramente eroici e civilissimi perchè
a costo di rimetterci la Pelle non rinunciavano alla Poesia... e mi sentivo
tutto orgoglioso quando mi assalì un dubbio: e se invece questa
fosse incapacità a partecipare al grande dramma della Patria? Se
fosse indifferenza, apatia, "attendismo"?".
E’ evidente, insomma, che dopo aver esultato per
l’intervento dell’Italia in guerra, la popolazione era ormai stanca, risentiva
dell’aumentato costo della vita e non vedeva l’ora di tornare alla normalità,
in tutto e per tutto. Quel che occorre ribadire, però, è
che in effetti, specie nei primi mesi di Repubblica Sociale, tutti rimasero
al loro posto a lavorare e ciò permise alle autorità di fornire
ai cittadini quei servizi necessari alle attività quotidiane della
città.
Firenze, in questo, fu un caso emblematico e sul
capoluogo toscano andiamo adesso a soffermarci, permettendoci comunque
di generalizzare e di dire che la situazione fiorentina è paragonabile
a quella della maggioranza delle città italiane del nord e del centro
(anche se, come avremo modo di sottolineare, Firenze fu più fortunata
di altre, in quanto la presenza di campagne nel circondario permise alla
popolazione di procurarsi il cibo anche nei momenti più difficili
del passaggio del fronte).
Sia il 25 luglio che l’8 settembre del ’43 la popolazione
e le autorità fasciste, che pur detenevano armi e potere, non ebbero
grandi reazioni. Il giorno della caduta di Mussolini in città si
ebbero solo una cinquantina di feriti e qualche manifestazione di esultanza.
Maggiore angoscia e senso di smarrimento caratterizzarono l’8 settembre
e nella mattina del 12, quando i tedeschi entrarono in città occupandone
i punti nevralgici, i fiorentini si chiusero in casa, ma, poche ore dopo,
i negozi, che avevano abbassato le serrande, ripresero la loro attività.
Nonostante il coprifuoco e gli allarmi aerei, la
vita cittadina, almeno nei primi mesi di Repubblica Sociale, non fu interrotta
così tante volte. Gli allarmi erano ancora rari (nell’agosto del
43 ne suonarono solo nove) e le stesse autorità credevano poco alla
possibilità di un bombardamento su una città d’arte amata
in tutto il mondo. Nonostante fossero stati costruiti numerosi rifugi,
i fiorentini erano indisciplinati e spesso gli allarmi non li spingevano
a nascondersi come avrebbero dovuto. Rimanevano per strada, incuriositi
dai sorvoli degli aerei, e fu proprio questo a determinare il grande numero
di vittime durante il primo bombardamento su Firenze. Il 25 settembre ’43
si contarono, infatti, 218 morti e 150 feriti. Tra loro, perse la vita
anche il noto professor Kriegbaum, direttore dell’Istituto Germanico di
Storia dell’Arte, che proprio qualche tempo prima, riferendosi al capoluogo
toscano, si era retoricamente chiesto: "Chi potrebbe distruggere una
tale bellezza?".
Il bombardamento sconvolse i fiorentini, il cui stato
d’animo non era sicuramente dei migliori, anche se non avevano la volontà
di mettere in difficoltà le autorità. Ovviamente, l’umore
della popolazione seguiva l’andamento delle operazioni militari, e soprattutto,
la situazione economica e alimentare, che peggiorò a partire dal
marzo ’44 (mese durante il quale ci furono 31 allarmi e 2 bombardamenti).
Firenze, come abbiamo già accennato, fu comunque una città
che sotto questo aspetto fu fortunata. Nelle campagne vicine, infatti,
i fiorentini poterono trovare frutta, verdura, pollame anche nei momenti
più difficili. Non solo, ma chi aveva soldi da spendere poteva comprare
di tutto al mercato nero: dalle calze al burro (180 lire il chilo), dall’acqua
allo zucchero, dai panini ripieni al prosciutto, che costavano 15 lire,
alla carne, che nei mesi appena antecedenti il passaggio del fronte in
città, si poteva acquistare a 160 lire il chilo.
In realtà, nei primi mesi di Repubblica Sociale
anche sul mercato "ufficiale" la situazione era piuttosto buona.
I raccolti abbondanti permettevano di distribuire quasi tutte le razioni
previste. Più difficoltà si ebbero sin dall’inizio per prodotti
come pesce, latte, olio (nel giugno 1944 un fiasco di due litri e mezzo
arrivò a costare anche 1100 lire!), grassi in genere e carne. I
dolci, che ancora venivano confezionati, avevano prezzi molto alti.
Per la popolazione, comunque, districarsi tra le
numerosissime norme, che regolavano il tesseramento e che coinvolgevano
produttori, rivenditori e consumatori, non era facile. Non tutti i negozi
potevano vendere le razioni, che per altro venivano distribuite in determinati
giorni. Ciò causava lunghe file davanti agli spacci autorizzati,
tanto che spesso le donne, che più si dedicavano a questo tipo di
attività, avevano difficoltà a tornare a casa prima dell’inizio
del coprifuoco. La popolazione, che non poteva accontentarsi delle razioni
"ufficiali", si ingegnava in tutti i modi possibili per ottenere
di più. I produttori agricoli erano restii a consegnare tutto il
quantitativo designato dalla Sepral (Sezione Provinciale dell’Alimentazione)
agli ammassi e non erano pochi coloro che macinavano e macellavano clandestinamente.
Tra i commercianti c’era chi vendeva la merce sottobanco a prezzi più
alti di quelli consentiti e chi, in bar o trattorie, non si atteneva alle
norme sulla somministrazione e finiva con il preparare cappuccini, anche
se vietati, o confezionare dolci con zucchero e mandorle, anche se non
era permesso dalla legge. Dal canto loro i consumatori preferivano sicuramente
pagare di più ma assicurarsi un quantitativo di cibo maggiore, acquistando
al mercato nero o cercando qualche scusa per farsi duplicare la carta annonaria
dalle autorità competenti.
Nel corso dei mesi, i generi che venivano tolti dal
mercato libero e poi razionati aumentarono. Nell’ottobre ’43 fu introdotto
il razionamento del sale, che veniva distribuito in misura di 100 grammi
per persona alla settimana (nell’aprile ’44 la razione fu ridotta di 1/3).
Il mese successivo furono tesserati anche i tabacchi, per ovviare alle
lunghe code che si creavano a causa di intere famiglie, compresi minorenni,
che si mettevano in fila per acquistare anche 70 sigarette al giorno, per
poi rivenderle sul mercato nero, facendo affari d’oro. La razione individuale
fu fissata inizialmente a 40 sigarette a testa alla settimana. Da dicembre
il razionamento dei tabacchi fu ulteriormente modificato e regolamentato
da 11 articoli, secondo i quali a ciascun consumatore sarebbe stata rilasciata
una tessera con nome e cognome del proprietario, numero della rivendita
presso la quale recarsi, e numero della carta annonaria. La tessera era
divisa in 52 cedole che l’esercente doveva staccare settimana per settimana
all’atto della distribuzione della razione. La razione individuale settimanale
sarebbe stata determinata ogni volta dall’ufficio compartimentale dei Monopoli
di Stato. Nel maggio del 1944, infine, il tesseramento dei grassi fu esteso
a tutti i pubblici esercizi, esclusi quelli di quarta categoria.
Con il passare dei mesi, l’aumento dei prezzi e il
peggioramento generale della situazione economica portò a un aumento
delle infrazioni annonarie, tanto che le autorità cercarono di porvi
rimedio aumentando i controlli. A questo scopo fu istituito il Nucleo di
Polizia Economica, guidato dal capitano Ercole Cardillo, che cercò
di reprimere i reati attinenti alla disciplina economica della produzione
e distribuzione dei prodotti. E anche se sequestri e punizioni furono in
effetti numerosi, era sicuramente impossibile riportare la situazione sotto
controllo. I commercianti nascondevano stoffe e tessuti dentro le pareti
dei loro negozi o nei cimiteri e, intanto, strani personaggi provenienti
da chissà dove entravano in città cercando di fare affari,
speculando sulla fame e sui bisogni dei fiorentini. E’ il caso ad esempio
di tre cinesi, Ton Hutymg, Ching-Chang Chene e Jue Jean Koo, arrivati in
città da Milano per vendere clandestinamente camicie da uomo e fazzoletti.
Furono arrestati per aver tentato di corrompere gli agenti della squadra
annonaria.
Nell’aprile ’44 la Sepral aumentò le razioni
di pasta e di pane. La pasta passò da due a tre chili a testa il
mese, il pane salì a 250 grammi, anche se era poco lievitato e quindi
pesava di più. In luglio, a un mese dall’inizio della "battaglia
di Firenze" le difficoltà dal punto di vista economico erano
ormai insuperabili. La carne, insufficiente alla distribuzione, tornò
sul mercato libero, con un prezzo che variava dalle 80 alle 150 lire il
chilo. I prodotti più abbondanti erano frutta e verdura, mentre
la razione di pane scese a 100 grammi, era distribuita solo al mattino
e doveva bastare in media per sette persone della famiglia. Quando il pane
mancava, veniva distribuito direttamente il grano.
L’olio era diventato, come scriveva Bernard Berenson
nel suo "Echi e riflessioni – Diario ’41-44" "raro come
un liquore prezioso", anche se qualcuno giurava che in giro si potessero
trovare ancora pasta e pane fatti in casa, verdure, pere, susine e fichi
dolcissimi.
La situazione economica influenzava senza dubbio
l’umore della popolazione, tanto che proprio le difficoltà economiche
furono la motivazione principale che portò agli scioperi del marzo
1944, unica occasione in cui l’ordine pubblico cittadino fu messo in crisi.
I primi giorni di marzo, infatti, gli operai delle principali fabbriche
cittadine (Pignone, Cipriani Baccani, Manifattura Tabacchi, Galileo) incrociarono
le braccia, rendendo tangibile il malcontento che serpeggiava tra loro
a causa dell’aumento del costo della vita, al quale non era corrisposto
un aumento dei salari. Per gli operai, ma anche per tutti gli impiegati
a reddito fisso, era difficilissimo vivere con i soli generi tesserati,
e, allo stesso tempo, i loro bassi stipendi permettevano loro di ricorrere
solo in misura modesta al mercato libero e alla borsa nera. Questa situazione
induceva, così, i lavoratori a restare al loro posto, visto che
anche un pur modesto stipendio era fondamentale per sopperire alle necessità
quotidiane.
L’aspetto economico e quello dell’approvvigionamento
alimentare furono sicuramente due dei più importanti nella vita
quotidiana della popolazione, che fecero il buono e il cattivo tempo negli
umori e negli stati d’animo e che assorbirono gran parte delle giornate
dei cittadini, in particolar modo delle donne, vere amministratrici della
gestione domestico-familiare, dopo che i loro uomini si erano arruolati
a fianco della R.S.I o avevano più vilmente deciso di vivere da
latitanti nei boschi.
La vita quotidiana dell’epoca era però caratterizzata
anche da altri aspetti. Abbiamo detto che in gran parte delle città
italiane del nord i vari servizi pubblici funzionavano, i giovani andavano
a scuola e all’università, e si poteva anche dedicare il poco tempo
libero uscendo a cena nella migliori trattorie della città o assistendo
a gare sportive, o a mostre d’arte, o ancora gustandosi i film al cinema
o le opere a teatro.
Se torniamo infatti a parlare del capoluogo toscano,
è evidente che nel periodo che va dalla costituzione della Repubblica
Sociale (settembre 1943) al momento del passaggio del fronte in città
(agosto 1944), solo i bombardamenti degli anglo-americani del 25 settembre,
del 18 gennaio, dell’8 febbraio, dell’11 e del 23 marzo, del 1° e 2
maggio, gli allarmi aerei e poche, isolate azioni dei Gap, interruppero
le varie attività cittadine.
Gli uffici pubblici erano di norma aperti mattina
e pomeriggio, in tutta la città c’erano 30 cinema (dove si proiettarono
sino alla fine di luglio del 1944 film come "La Gorgona" di Sem
Benelli, "Ossessione" di Luchino Visconti, "Circolo equestre
Zabum" con Alida Valli, Aldo Fabrizi e Carlo Ninchi, "Resurrezione"
con Doris Duranti), senza contare i vari teatri (Comunale, Pergola, Verdi,
Nazionale), dove opere, commedie e riviste furono allestite "sino
all’ultimo".
Come ogni anno, anche nel ’44, in piena guerra civile,
fu organizzato il Maggio Musicale, giunto alla nona edizione, che fu inaugurato
l’8 aprile con un programma che prevedeva, tra l’altro, l’esecuzione di
opere famose e di sicuro successo, come la "Lucia di Lammermoor",
il "Flauto Magico", il "Falstaff", "Un ballo in
maschera" e la "Agnese Bernauer" di Hebbel (quest’ultima
ebbe protagonisti del calibro di Vittorio Gassmann, Ernesto Calindri, Memo
Benassi e Ernesto Sabbatini). Artisti quali Antonio Abussi, Gino Bechi,
Fedora Barbieri, Onelia Fineschi, Gustavo Gallo, Tito Schipa e Andrea Morosini
si alternarono sul palco del Comunale sino al bombardamento di maggio,
che determinò la chiusura del famoso teatro fiorentino, a causa
della distruzione dell’organo, delle attrezzature del palcoscenico e di
molte delle partiture delle opere e dei concerti. Le autorità, però,
non si dettero per vinte neanche in quell’occasione e il "Così
fan tutte" programmato da tempo per il 2 del mese, si tenne ugualmente
all’interno del teatro della Pergola, sotto la direzione di Vittorio Gui,.
Anche il mondo della pittura dimostrava vitalità.
Nelle numerose gallerie cittadine si esponevano i quadri di artisti dell’800,
come Fattorini, Signorini, Silvestro Lega, Gordigiani, e di contemporanei,
quali Pietro Annigoni, Ottone Rosai, De Chirico, Primo Conti, Lorenzo Viani,
Ardengo Soffici, Alberto Savinio, Carlo Carrà, Umberto Boccioni,
scultore e teorico della compenetrazione dei piani, con dei nomi, quindi,
da far invidia alla Firenze di oggi, che si trova in una situazione di
pace ormai da più di mezzo secolo.
Nel giugno ’44, mentre le autorità fasciste
si stavano preparando ad abbandonare la città, fu organizzata a
Palazzo Strozzi la XIV Mostra interprovinciale organizzata dal Sindacato
fascista di Belle Arti della Toscana. Nello stesso mese iniziarono le audizioni
per l’ammissione al Centro di avviamento lirico del Comunale e già
si pensava all’inaugurazione della stagione sinfonica estiva nel cortile
di Palazzo Pitti, quasi come se la cruenta guerra civile facesse da sfondo
a una vita cittadina che doveva andare avanti, nonostante tutto, e anche
in quella situazione di emergenza.
Dal punto di vista culturale, la città, dopo
essere stata crocevia di intellettuali, artisti e scrittori, che avevano
portato nuove idee e ideali, non solo poteva permettersi di vivere di rendita,
ma, con i limiti comunque dettati dalla particolare ed "eccezionale"
situazione, continuò ad essere viva anche in questo ambito. I vari
istituti culturali funzionavano. C’erano l’ Istituto Nazionale di Studi
sul Rinascimento, l’Accademia fiorentina di Scienze Morali "La Colombaria",
il Gabinetto Vieusseux, prestigiose biblioteche come la Riccardiana, la
Nazionale e la Marucelliana, l’Istituto nazionale di Cultura Fascista e
l’Istituto Germanico di Storia dell’Arte, diretto dal professore Kriegbaum
(dopo la sua morte, avvenuta nel corso del primo bombardamento alleato
su Firenze del 25 settembre ’43, gli successe Ludwig Heinrich Heydenreich).
Nel novembre ’43 si trasferì a Firenze presso Palazzo Serristori
la prestigiosa Accademia d’Italia, diretta da Gentile e poi da Giotto Dainelli,
in dicembre fu riorganizzata l’Accademia della Crusca e nello stesso mese
fu inaugurata la nuova sede dell’Associazione italo-germanica a Palazzo
Antinori. Dal 29 marzo al 19 maggio ’44 fu organizzato dal circolo "Lyceum",
sotto il patrocinio del Comune e con l’apporvazione dal cardinale Elia
Dalla Costa, un ciclo di conferenze sui Santi italiani, al quale parteciparono,
oltre alla presidentessa Jolanda Blasi, Guido Manacorda, Mario Casella,
Adolfo Oxilia, Paolo Lamanna e Luigi Maria Personè.
Anche se la grande epoca delle riviste fiorentine
era ormai tramontata, durante i mesi della Repubblica Sociale Italiana
uscirono quotidiani e periodici di rilievo.
La Nazione e il Nuovo Giornale, i quotidiani di informazione,
furono pubblicati sino alla fine di luglio, mentre nel primo mese del ’44
iniziò le sue pubblicazioni il già citato "Italia e
Civiltà", settimanale diretto da Barna Occhini, edito da Carlo
Cya, e al quale collaborarono tra gli altri Giovanni Gentile, Ardengo Soffici,
Primo Conti, Ridolfo Mazzucconi, Giovanni Spadolini, Enrico Sacchetti.
La rivista, il cui ultimo numero uscì il 17 giugno, ebbe un tono
pacato, ma non risparmiò critiche a certi atteggiamenti, sia che
fossero propri delle autorità fasciste, sia della popolazione.
Più acceso e aggressivo il tono di "Repubblica",
settimanale stampato in una tipografia di via della Pergola, che annoverava
tra i collaboratori Chiara Corsini, Mario Vannini, Franco D’Agostino, Gioacchino
Albano, Melchiorre Melchiorri. L’ultimo numero uscì il 22 luglio
’44.
Nel’44, precisamente da febbraio a maggio, riprese
le pubblicazioni anche la "Nuova Antologia", diretta sino alla
sua morte da Giovanni Gentile, e poi da Ardengo Soffici. Gli articoli erano
puramente (o quasi) accademici e toccavano quindi solo da lontano gli argomenti
di attualità; i collaboratori erano professori e studiosi di altissimo
livello, come Eugenio Garin, Giotto Dainelli, Niccolò Tommaseo e
Giovanni Spadolini.
In generale, quindi, nonostante la situazione particolare,
la città ebbe il suo fiorire letterario e artistico, anche se spesso
le autorità fasciste lamentarono anche agli intellettuali la tendenza
a fuggire dalla realtà per rifugiarsi in un mondo tutto loro. Enrico
Sacchetti, ad esempio, su "Italia e Civiltà" scrisse un
articolo piuttosto forte nel quale accusava gli stessi intellettuali dell’assassinio
del grande filosofo Giovanni Gentile. Volenti o nolenti, complici del delitto
di Gentile erano tutti quei professori che si davano per malati, i giornalisti
alla macchia, i letterati, i pittori che continuavano a dipingere nature
morte, i poeti e pensatori che non parlavano, che stavano nascosti o che
pure scrivevano ma limitandosi "a cercar farfalle sotto l’arco di
Tito".
In effetti, anche tra gli intellettuali schierati,
serpeggiava sicuramente un senso di smarrimento e di angoscia. Primo Conti,
nel suo "La gola del merlo" sottolinea la sensazione di
imminente tragedia, che provava in una "stagione piena di incubi e
sospetti". Allo stesso modo Ardengo Soffici spiegò con queste
parole il motivo che lo portò a fare una scelta difficile, restando
a fianco della Repubblica Sociale Italiana: "Vedi, la donna che c’innamorò
quando era adolescente, ora è vecchia, brutta e ammalata. Scappare
da lei sarebbe un’ignobile viltà: bisogna stare vicini al suo letto
e sopportarla, anche maleodorante". Questione d’onore, quindi, che
fecero propria tutti coloro che, pur essendo consapevoli dell’ormai imminente
tragedia, pur comprendendo che Mussolini aveva ragione quando definiva
se stesso "uomo per ¾ defunto", restarono al fianco di
un ideale. Barna Occhini, genero di Papini e direttore di "Italia
e Civiltà", dette la colpa al Duce di questa triste situazione.
In una lettera indirizzata allo stesso, infatti, scrisse: "...avete
lasciato che il mercato nero diventasse una piovra gigantesca; avete lasciato
che restassero al vostro fianco, come intimi collaboratori, uomini che
il Paese disprezzava e odiava... ora il primo responsabile di quanto è
avvenuto, tradimento compreso, siete Voi, perchè in regime di dittatura
è il dittatore responsabile di tutto, e come a lui risale ogni merito,
così su di lui ricade ogni demerito..."
Ma se il senso di smarrimento era comunque comprensibile,
nei fatti, allo stato pratico, la popolazione continuava la sua vita. Il
15 novembre a Firenze iniziarono le scuole elementari, medie inferiori
e superiori. Le lezioni si svolgevano generalmente dalle 8.30 alle 11.30,
anche se alcune scuole adottarono il turno pomeridiano, con inizio alle
14.30. Sebbene interrotte sempre più spesso dagli allarmi, le lezioni
si tennero regolarmente e regolarmente gli studenti andarono in vacanza
dal 22 dicembre all’8 gennaio.
Dopo i bombardamenti dell’11 e 23 marzo, la situazione
subì un peggioramento, in quanto i numerosi sinistrati, che avevano
perso la casa sotto le bombe e che non conoscevano nessuno che li potesse
ospitare, furono sistemati dal Comune proprio nelle scuole. Così,
con i locali pieni, le lezioni non potevano essere tenute e tra il 15 e
il 22 aprile chiusero tutte le scuole, anche se a maggio furono comunque
fissati gli esami.
Anche l’Università funzionò per un
certo periodo di tempo. Sino al 31 dicembre ’43 fu possibile iscriversi,
mentre le lezioni cominciarono il 17 gennaio. Rispetto alle scuole, nelle
facoltà si respirò un’aria più turbolenta, soprattutto
perchè molti furono gli studenti progressivamente richiamati alla
leva. In più, un numero più consistente di professori seguì
l’atteggiamento attendista e assenteista (ma tutti o quasi si ripresentavano
per prendere lo stipendio alla fine del mese) che colpì anche la
magistratura. Emblematico il caso di Rodolfo De Mattei, professore di storia
delle dottrine politiche alla facoltà di Scienze Politiche, che,
dopo essersi presentato a lezione solo un paio di volte, sparì dalla
circolazione dopo aver affermato: "Mi rivedrete insieme agli inglesi".
La sostanziale tranquillità che caratterizzò
la vita quotidiana durante i mesi della Repubblica Sociale Italiana fu
confermata anche da un dato sorprendente, ovvero il numero degli ebrei
fiorentini deportati. In effetti, la comunità ebraica del capoluogo
toscano era numerosa, contava 2500 persone, ma solo 248 furono portate
via e di esse 235 non fecero più ritorno a casa. Una percentuale
pari a poco meno del 10%, che non è poi granchè se si pensa
ai meticolosi rastrellamenti operati allora dai tedeschi. D’altronde le
autorità fasciste, per mezzo dell’Ufficio Affari Ebraici, istituito
alla fine del ’43, si occuparono esclusivamente delle requisizioni dei
beni della comunità ebraica e in effetti il suddetto Ufficio, guidato
da Giovanni Martelloni, ebbe un’entrata complessiva di 865.845 lire.
L’ultimo aspetto che andremo ad analizzare è
quello dell’efficienza della pubblica amministrazione, che, nonostante
i costi esorbitanti che dovette sopportare, elargì ai cittadini
i principali servizi.
Giotto Dainelli, che accettò solo nel febbraio
’44, dopo varie esitazioni, la carica di podestà, portò avanti
con grande efficienza il suo programma, da lui stesso illustrato ne "Le
attività da me svolte in Firenze nella primavera 1944"
(Roma, 1948) e che consisteva nel predisporre e prevedere d’urgenza quanto
fosse di volta in volta necessario per le vicende della guerra combattuta,
in particolare nel caso di bombardamenti; nel prevedere l’eventualità
di un’occupazione anglo-americana e le impellenti necessità che
sarebbero di conseguenza derivate dal cambio di occupanti stranieri in
guerra tra di loro; nello studiare i grandi problemi cittadini, in modo
che tutto fosse pronto per il dopoguerra. Dainelli fece così il
possibile per far proseguire gli studi sul piano regolatore, sul sistema
fognario cittadino e su quello idrico, anche e soprattutto in previsione
della fine del conflitto, si prodigò per la riattivazione dei pozzi
cittadini, in un momento in cui l’acqua era assai rara, predispose in città
quattro punti fissi di soccorso ai quali i fiorentini potevano ricorrere
in caso di bombardamenti e si adoperò affinchè lo sgombero
delle macerie e gli interventi successivi alle incursioni fossero immediati
e efficienti. Non solo, ma il podestà ebbe un ruolo importante nel
far riconoscere l’appartenenza al Comune di Firenze delle ricchezze artistiche
dei musei cittadini, nell’ambito dello spettacolo fece in modo che fosse
organizzato nel migliore dei modi il Maggio Musicale fiorentino e, grazie
a lui, in città furono allestite numerose mense comunali. In vista
del passaggio del fronte e quindi dei giorni dell’emergenza, fece predisporre
dal direttore dell’Ufficio di Igiene un elenco delle possibili malattie
epidemiche che avrebbero potuto diffondersi in città e fece acquistare
i farmaci necessari. Non solo, ma fu promotore di un importante progetto,
poi fallito in quanto le banche non dettero la loro disponibilità,
che avrebbe dovuto dotare il capoluogo toscano di una riserva di quasi
24.000 quintali di carbone vegetale, da utilizzare nel caso, piuttosto
probabile, in cui il gas non fosse stato più erogato.
Anche gli istituti di beneficenza - 38 erano quelli
che si trovavano in città – continuarono a funzionare e un’opera
importante fu quella svolta dall’Epaf (Ente provinciale di Assistenza fascista),
che accentrava le varie attività assistenziali che nel ventennio
erano state curate dalla Federazione fascista, che si occupava dei combattenti
e delle loro famiglie, dalla Prefettura, punto di riferimento per sfollati
e sinistrati, e dagli Enti Comunali di Assistenza, che cercavano di risolvere
i problemi dei rimpatriati e delle famiglie bisognose. Nel solo mese di
dicembre del ’44 l’Epaf erogò 12 milioni e mezzo di lire e nell’aprile
’44 20 milioni, più un milione di sussidi straordinari di primo
intervento erogati per i due bombardamenti del primo e 2 maggio.
Finchè il fronte non passò da Firenze,
i principali servizi pubblici, quindi, funzionarono: treni, corriere, tram
(in città c’erano più di 30 linee), taxi (che partivano da
piazza Beccaria, piazza Donatello, piazza Cavour, piazza Santa Trinita,
e così via) erano a disposizione dei cittadini sino all’ora del
coprifuoco. Allo stesso modo, con le ovvie limitazioni determinate dalla
difficile situazione, gas, luce, acqua vennero erogati sino all’ultimo.
Quando il carburante iniziò a scarseggiare i servizi delle corriere
che andavano fuori Firenze furono ridotte, così come aumentò
il costo dell’energia elettrica. I bombardamenti sulla città causarono
inoltre sospensioni, seppur temporanee, dell’erogazione di gas (che, ad
esempio, dopo l’incursione dell’11 marzo fu sospesa per cinque giorni e
il 23 dello stesso mese, a causa dei danni provocati dagli ordigni da 500
libbre scaricati dagli aerei anglo-americani fu ulteriormente ridotta),
acqua e luce, oltre che a interruzioni delle linee tranviarie (in particolare
il 25 settembre ’43, quando rimasero uccisi sotto le bombe 14 tranvieri).
A partire dal ’44, e con sempre maggiore intensità,
si fecero sentire anche gli atti di sabotaggio e le azioni di disturbo
da parte delle bande di partigiani, che andavano a colpire i tratti ferroviari
e le linee telefoniche "volanti", che erano utilizzate dai tedeschi
per mettere in comunicazione tra loro i diversi comandi. Dall’inizio del
’44 si verificò una diminuzione nella circolazione di auto private,
a causa della mancanza di carburante e alla conseguente introduzione di
divieti e limitazioni. Il 6 marzo ’44 l’esplosione di due bombe provocò
danni agli scambi della linea elettrica tranviaria in via Baldini, ma in
meno di tre ore il servizio fu ripristinato. Da segnalare l’aumento progressivo
dei biglietti dei tram, che comunque rimasero in funzione sino a luglio,
quando furono usati in particolar modo per il trasferimento di merci e
immondizie. Il 10 giugno fu sospesa del tutto l’erogazione del gas e a
fine mese si verificò una forte carenza di acqua, tanto che le condizioni
igieniche peggiorarono in modo consistente. Il 23 luglio smisero di funzionare
i telefoni, ma, ad ogni modo, se si escludono i giorni dell’emergenza vera
e propria, il personale ferroviario, i vigili, i postelegrafonici, gli
agenti di pubblica sicurezza e gli addetti alle organizzazioni di soccorso
rimasero diligentemente al loro posto per tutto il periodo della Repubblica
Sociale.
Concludendo, quindi, e sintetizzando ciò che
abbiamo già ampiamente sottolineato, anche durante il periodo della
R.S.I la città di Firenze, e più in generale le città
del centro-nord, restarono "vive", nonostante tutto. Non solo,
ma i cittadini dimostrarono di non sentirsi completamente coinvolti da
tutto quello che accadeva loro intorno. L’attenzione era rivolta essenzialmente
ai piccoli (anche se importanti) problemi quotidiani. I fiorentini, in
particolar modo, dimostravano di estraniarsi, di essere distratti e indisciplinati,
persino in fatto di circolazione stradale. Ecco cosa si legge sulla Nazione
del 1° dicembre ’43: "Firenze è stata sempre la città
più refrattaria a tutte le discipline e in particolar modo a quella
di cui parliamo... I visitatori provenienti da altre città si meravigliavano
che i buoni fiorentini dessero prova di una così totale noncuranza
per i regolamenti, attraversando le strade quando loro faceva comodo, guardandosi
bene dal seguire una mano, nel camminare sui marciapiedi, affollandosi
sui crocevia in amena conversazione... Se le rinnovate disposizioni hanno
dato una parvenza di regole alla circolazione, non hanno infatti, e non
lo potevano, cambiato il carattere e le abitudini dei cittadini, quali,
da epoca immemorabile, hanno amato fermarsi a chiacchierare, prima sui
marmi di Santa Reparata e poi sui crocicchi delle strade... Lo stazionamento
inoperante in mezzo alle strade, l’ozio contemplativo del pedone che sfoggia
il suo spirito con le ragazze che passano, è roba d’altri tempi,
quando la placidità un pò sonnolenta della vita permetteva
questo e altro." Per ovviare a questi inconvenienti, fu organizzato
addirittura un ciclo di conferenze a cui dovevano obbligatoriamente presenziare
coloro – pedoni, automobilisti e motociclisti – che avevano commesso infrazioni
al codice della strada. Le lezioni erano tenute dal comandante dei vigili
urbani Aldighiero Batini presso l’Archivio Centrale di Stato in via dei
Castellani e, accompagnate da proiezioni, iniziavano alle 7 di mattina
di ogni domenica. Chi non si presentava in orario sarebbe stato multato;
chi non si presentava affatto sarebbe stato arrestato.
Emblematico dello stato d’animo che si respirava
tra la popolazione al momento del passaggio del fronte è anche il
simpatico aneddoto riportato da Curzio Malaparte nel suo "Maledetti
toscani", dove racconta che una mattina dell’agosto del 1944, quando
gli alleati erano già entrati in città, un commerciante o
più probabilmente un contadino, con il suo carretto a mano carico
di fiaschi di vino, si trovò ad attraversare via Calzaioli. Dietro
di lui, un colonna corazzata inglese, che chiedeva di passare. Al carrista
che ordinò di spostarsi, l’uomo andò in escandescenze e gli
urlò contro frasi del tipo: "Ho furia anch’io! O che prepotenze
son queste? Non s’è mai finito di vederne di nuove! ‘E vanno via
quelli e arrivano quest’altri! Io non mi sposto, io vo’ per la mi’ strada!
E se t’hai furia, passa da un’altra parte!". O ancora: "o che
vi credete d’essere a casa vostra? C’è tanto posto nel mondo per
andare a fare la guerra, proprio qui vu’ avete a venire?..". Insomma,
i fiorentini erano ormai stanchi della guerra e di tutti coloro che occupavano
la città. Volevano riappropriarsi della loro amata città
e tornare a una situazione di normalità, in tutto e per tutto. E
in questo erano vicini a gran parte della popolazione italiana, che in
un momento così difficile e triste, scelse la via più facile,
quella attendista, che non avrebbe aggiunto problemi alle già numerose
avversità quotidiane.